Siamo ancora costantemente e quotidianamente “bombardati” da notizie e numeri sulla pandemia di Covid-19 nonostante siano ormai trascorsi due anni dall’inizio di questa turbolenta disavventura sanitaria. Ogni sera ci viene fornito il consueto bollettino di infettati, ospedalizzati e morti con una ritualità e ripetitività a cui abbiamo concesso la nostra abitudine.
Nel momento in cui ci saremmo auspicati di poter accennare a sporgere il naso dalla porta del Covid-19 per vedere cosa ci fosse di bello la fuori, eccoci piombare nel terrore di un conflitto bellico, praticamente alle porte di casa.
Si tratta dell’esasperazione ed internazionalizzazione di qualcosa che in effetti era iniziato nel 2014.
Noi come al solito fintanto che non ci sentiamo toccati in primissima persona non siamo particolarmente consoni ad interessarci di quelle che riteniamo le guerre “altrui”. Fu così anche per quanto riguardò il conflitto nei Balcani veramente ad un tiro di schioppo da noi. Una vicenda che si ripercosse sul nostro Paese più che altro dal punto di vista di immigrazione da quelle realtà in guerra tra loro. Qualcuno se lo ricorda ? Lo stravolgimento dell’ex Jugoslavia ? La memoria di tutti noi è purtroppo sempre troppo corta in questa come in quasi tutte le altre simili circostanze.
Al di là delle pur strategiche e fondamentali ragioni che hanno portato a questo conflitto, inizialmente “interno” sin dal 2014, in un Paese, l’Ucraina, indipendente dal 1 Dicembre 1991 dopo essere stato parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), ciò che ci interessa comprendere sono ovviamente le conseguenze più o meno dirette sulla nostra vita di tutti i giorni, sul “ribaltamento” in termini economici di questo esercizio di forte tensione diplomatica e militare ormai in corso da mesi sulle e nelle nostre tasche, nei nostri budget e bilanci famigliari.
Non è arduo comprendere che veramente e “concretamente” la decisione di Vladimir Putin di riconoscere le Repubbliche separatiste (ucraine) del Donbas con il successivo annuncio di voler attuare un’operazione di “peace keeping” che tradotto significa di fatto un’invasione del suolo di un Paese sovrano come poi purtroppo recentemente avvenuto in termini pratici, avrà come conseguenza più o meno immediata l’aggravamento della già pesante crescita dei prezzi delle materie prime con in testa il gas che a sua volta serve anche a generare energia elettrica. Le bollette arrivate in questi giorni anche a livello di utenza domestica ne sono una prova indissolubilmente vera, seria e “concreta” che ci ha tolto parte del nostro potere di acquisto e partecipa fattivamente all’aumento dell’inflazione.
Quanto è già grave e dannoso per il “focolare domestico” lo è a maggior ragione per le aziende e per le attività imprenditoriali nel più ampio concetto del termine, dalla grande azienda multinazionale al pizzaiolo sotto casa.
La componente energetica, quanto serve per produrre, è importantissima per tutte le imprese e costituisce uno dei precipui fattori di costo all’interno del loro conto economico. Le aziende devono ribaltare questo aumento dei costi sui prezzi dei prodotti finiti ove vi riescono perché il loro bene e prodotto è riconosciuto come indispensabile da una certa utenza. Dove questo non fosse possibile le imprese sono molto spesso costrette ad alzare bandiera bianca nel senso che in alcuni casi è preferibile “chiudere”, smettere, piuttosto che produrre in perdita.
E’ sin troppo semplice dedurre che questo significa il venir meno di imprese che magari erano nate e cresciute nel corso di decenni ed il cui declino arreca indubbie negative conseguenze alle proprie forze lavoro.
Anche in tutti i casi in cui questa eventualità non dovesse aver luogo come ovviamente ci auguriamo, la comunque forte riduzione degli utili a causa dei costi energetici aumentati, comporterà una minore attrattività di investimento in quelle compagnie con la conseguente riduzione dei corsi azionari per quelle società che risultano quotate.
Un altro peso non sottovalutatile è altresì costituito dall’eventualità che il mercato dei consumatori posto dinnanzi a prezzi ritenuti non congrui alle proprie aspettative e troppo cresciuti rispetto alle propri capacità di acquisto, non effettui questi acquisti e li rimandi a tempi migliori.
Ciò determina per le aziende una riduzione del loro giro d’affari.
Certo non è la prima volta che ci troviamo di fronte a determinati scenari. Come detto prima, tutti, chi più chi meno, abbiamo la memoria corta.
Tutti gli anni ce n’è una. Senza andare alla preistoria pensiamo solamente alla crisi dei sub prime, alla Brexit nel 2016, alla stretta monetaria della FED nel 2018, per non parlare del Covid da fine 2019 ad oggi. Se vogliamo ogni anno abbiamo una ragione per “avere paura” di investire.
Al punto che gli italiani stanno tenendo sui conti correnti qualcosa come duemila miliardi di euro col rischio di rimetterci mediamente il 5% in termini reali.
Senza contare che siamo investiti in immobili per oltre 6.400 miliardi, l’asset che ha costituito la tipologia di risparmio “principe” per decenni per tutti noi e le nostre famiglie.
E’ una questione di “cultura finanziaria” o se preferite di mancanza della stessa. Se torniamo un attimo ai sub prime dobbiamo immaginare la nostra controparte americana, con un’altra formazione ed un diverso atteggiamento verso gli investimenti, la quale controparte ha “approfittato” dello scivolone dei corsi causati da quella crisi ed ha visto quintuplicarsi il valore di quanto destinato alle azioni nel corso di questi ultimi anni.
Questa diversa cultura finanziaria genera un paradosso in Italia. Siamo uno dei Paesi più industrializzati del mondo ed abbiamo una delle Borse valori meno capitalizzate. Significa che non investiamo negli asset produttivi del Paese. Non investiamo nell’economia “concreta”, nell’economia reale.
La domanda corretta da porsi non è “in cosa investo”, ma piuttosto “perché investo”. Ed è sulla base delle mie aspettative ed esigenze che mi confronterò con il mio Consulente Finanziario per la costruzione del mio Portafoglio d’Investimento.
Se sono una persona non più giovanissima e desidero integrare una rendita periodica alla mia pensione penserò ad esempio a Fondi Azionari rappresentativi di azioni ad elevato dividendo.
Se sono giovane nel pieno dell’attività lavorativa punterò all’apprezzamento del capitale nel tempo ricercando attività dinamiche nel mercato azionario e ponendomi un orizzonte di lungo periodo senza farmi scalfire dagli alti e bassi, dalle turbolenze e da fattori “di disturbo” che sempre saranno presenti.
Se prevedo di dovermi comprare una casa da lì a poco rimarrò “conservativo” e prudente in un Fondo Monetario o cose simili, ecc.
Nell’ambito della gestione dei nostri Portafogli d’Investimento seguiremo innanzi tutto il fondamentale criterio del buon senso, consci che, almeno per una parte, ove quasi tutti intravedono crisi e fattori negativi, altri riescono a rintracciare le sempre presenti opportunità. Per questo ci faremo guidare ed interpreteremo insieme le indicazioni dei nostri esperti e dei ricercatori; di coloro che sono sui mercati e che percepiscono ed intravedono prima di noi le “mosse” di chi attua le grandi manovre sullo scacchiere economico-finanziario.
Pertanto, relativamente ai mercati o agli investimenti non esistono momenti “ordinari” o tranquilli. I mercati sono il riflesso della realtà del nostro mondo e di conseguenza rispecchiano quelle che sono le costanti dinamiche che gli esseri umani impongono alle loro vite ed alle loro attività.
Come sempre occorre tenere la barra del timone a dritta, essere preparati e ben seguiti, attuare una giusta diversificazione geografica e settoriale, nonché una profittevole dinamica che non significa schizofrenia e, innanzi tutto, bisogna ribadire che non si opera per l’immediato, oggi per domani, ma la nostra logica d’impostazione ci impone di avere una visione per il medio e per il lungo periodo.